Ho 31 anni e faccio arte da quando ne avevo circa 6 (anche se io questa cosa la chiamo in un altro modo).
Quando mi definiscono artista, provo spesso una sorta di imbarazzo che a sua volta si trasforma in timore, poiché a volte il termine “artista” viene accostato a “strampalato, inconcludente, poco serio”.
Non sono maniacale, ma desidero dare — e trovare — il giusto collocamento e valore ad alcuni miei lavori (non a tutti). A volte questi ultimi risultano anche rudi, quasi grezzi.
Quello che faccio non lo chiamo “fare arte”; preferisco definirlo il mio “tram-tram quotidiano”, il mio “trafficare” e — a tratti — il mio “combinare”.
Quello di cui mi sento veicolo ricorda più la gestione delle tournée medievali: penso, organizzo il lavoro e lo spazio, mi sporco le mani, osservo, lascio riposare. Tutto questo mi accade in maniera ciclica da 25 anni.
Alcune idee le lascio decantare a lungo, quasi fossero mosto, per poi attendere il momento giusto per realizzarle.
Sono più un contadino, custode delle colture della mia mente e del mio fare.
